E’ lunga e tortuosa la stada per Gibellina. Le curve si snodano dolci tra le colline verdi che non ti sembra nemmeno la Sicilia, un viaggio con il finestrino abbassato a riempirsi i polmoni di un’aria calda e densa di profumi. Un viaggio lungo e solitario, le curve una dopo l’altra e nessuno sulla strada, nessuno davanti, nessuno che ti segue, nessuno tra le colline, nessuno tra gli alberi. E poi, improvviso quel fazzoletto bianco, accecante, appoggiato da una mano gentile lungo il fianco della collina. Un bianco sudario che ti cattura lo sguardo e ti rapisce. Ornato attorno, come un merletto delicato, da poche case sparse tra il verde. Da lontano il paesaggio ti rapisce per quel senso di silenziosa bellezza, sospesa nel tempo. E ti avvicini lento, curva dopo curva. Ogni tanto quel telo bianco sparisce dietro la collina e poi riappare. Ti avvicini e ti accorgi che quelle che scorgevi da lontano non sono case ma brandelli di antiche dimore strappate a morsi, ripiegate, sparse sulla terra, avvolte dai rovi e dalle piante. E allora ti torna in mente quello che hai letto, i racconti di quella notte, immagini le grida, la disperazione di quella fredda notte di Gennaio. Erano passate le 3 da un solo minuto e immagini il silenzio assordante dopo l’ultima, inesorabile e definitiva scossa. Cambia tutto appena ti avvicini, i ruderi abbandonati sul ciglio della strada, i brandelli di muri che penzolano dalle colline a volte a insieme come piccole famiglie, e volte solitari come vecchi seduti ad aspettare la sera e scorgi lentamente che quel telo delicato è in realtà un muro, compatto, aspro, come immagini lo siano gli abitanti di questo luogo abituati al lavoro nei campi, impegnati a stappare alla terra quel tufo con il quale costruire le case. Ti avvicini lento e quel silenzio ti sovrasta, potente, sospeso. Cammini tra le crepe immacolate, e nel silenzio irreale sembra di sentire i passi, il concitato chiacchiericcio dei suoi abitanti, ti aspetti dietro l’angolo, di incontrare una donna intenta a spazzare l’uscio di casa. Muri, una moderna toponomastica via dopo via, ricostruita con le macerie avvolte, sigillate nel cemento candido, congelate, bloccate nel tempo a perenne memoria e in quel pensiero diventi anche tu candido cemento, Cretto.
Mai nessuna immagine riuscirà a restituire quel doloroso silenzio, la bellezza tragica e potente di quel monumento alla vita.
37°47’17.09”N 12°58’16.62”E - Gibellina vecchia, Il Grande Cretto, Alberto Burri, 1984 - 2015